È lo slogan che si legge sulla pagina web del Salone del Libro a Torino.
Osare... suona promettente.
Quanta speranza racchiusa in poche lettere. Speranza di riuscire a dare il gran salto, prima o poi!
Osare. È rischioso, lo so bene, ma chi non risica non rosica. Come mi è successo già in passato.
Proprio quando la mia passione iniziava a fiorire, ad essere palese, a volersi imporre agli altri.
Un'autrice, Leïla Sebbar; una raccolta di novelle, Sept filles.
La mia prima rudimentale esperienza di scouting per la tesi di laurea, la mia prima traduzione editoriale.
Quanto ho adorato - e continuo ad amare - lo stile di quella scrittrice dal cuore diviso tra Algeria e Francia, autrice prolifica, ma poco conosciuta in Italia. Conservo con cura, in una cartellina di quelle che usavamo alle medie per educazione tecnica, i miei cimeli: la nostra corrispondenza (sì, perché lei scrive ancora tutto a mano, una bella calligrafia, resa ancor più affascinante dalla sua Parker), una foto autografata, un suo racconto tradotto in italiano, e anche quello porta il suo nome sulla scia di un inchiostro nero.
L'incontro con lei è stata un'esperienza indimenticabile, come lo sarebbe stringere la mano a Caetano Veloso per un appassionato della musica brasiliana. Tecnicamente mi è servito a sciogliere alcuni nodi traduttivi, ma quanto mi ha arricchito a livello culturale e umano!
Una volta finita la tesi, tradotti i suoi racconti, il mio relatore mi ha chiesto se poteva tenersi l'opera originale. Sì, gliel'ho offerta. E poi gli ho chiesto, un po' ingenua chissà, se ci fosse qualche speranza di pubblicazione; lui mi ha risposto in maniera gentile ma senza possibilità di replica che si trattava di un'utopia e nulla più.
E invece... dopo qualche anno, in un vortice di ricerche in rete, mi imbatto in una versione italiana di Sept filles, tradotta da una laureanda di una facoltà in cui, guarda caso, insegna il mio relatore e, udite udite: pubblicata da una piccola casa editrice.
Morale della favola: osare!
Eh già, non accontentiamoci della prima porta chiusa, se crediamo davvero nelle nostre capacità e nel valore culturale di un'opera letteraria, di un autore straniero, la tenacia ci premierà, ne sono convinta.
Spesso ho avuto la tentazione di comprare il libro tradotto, per curiosità, per scoprire quanto fosse buona (e autentica...) quella traduzione. Forse un giorno lo farò sul serio, ma ora è tempo di volgere lo sguardo al futuro e non al passato e ai rimpianti.
Vi lascio però una chicca, una postfazione alla mia tesi sul libro della Sebbar, che il famoso relatore mi aveva anche proposto/promesso di pubblicare in una sua rivista letteraria, proposta/promessa che, pensa la sottoscritta, non si sia mai concretizzata.
Chissà che non vi incuriosisca leggere qualche opera della mia scrittrice.
INCONTRO CON LA SCRITTRICE LEÏLA SEBBAR
Parigi, 10 agosto 2005
Sono le cinque del pomeriggio, comincio a
essere un po’ tesa. Tra un’ora esatta incontrerò una scrittrice, la scrittrice
del libro che ho tradotto per la tesi, di un libro che ho scelto personalmente
dopo un’accurata ricerca. Ho già studiato la piantina di quella immensa
ragnatela che è la metropolitana di Parigi, ma in fondo sono bastati pochi
giorni per abituarmi e ora so che devo prendere due linee, cambiare a Gare Montparnasse e scendere a Glacière. E ora capisco come mai la
vicina portoghese di Yasmine ne La fille
au hijeb abbia il tempo di ricamare i suoi centrini nei mezzi di trasporto
parigini!
Mi muovo in anticipo per contrastare il mio
proverbiale ritardo ed eventuali intoppi, per esempio la smagnetizzazione della
Carte Orange, comprata per evitare la
noiosa, ripetitiva prassi del biglietto e che fino a quel mattino non mi aveva
dato problemi…
Insomma mancano cinque minuti alle sei e
per fortuna mi trovo a digitare il codice numerico del portone, sotto
l’immobile in cui abita M.me Sebbar. Ecco l’ascensore, terzo piano, sulla
destra, suono il campanello un po’ emozionata e aspetto una manciata di
secondi, pochi forse, ma interminabili.
Ed eccola che fa capolino dalla porta,
vestita semplicemente con una lunga giacca rossa, collo all’orientale e
abbottonatura laterale, con un paio di pantaloni neri e scarpe basse. Un filo
di trucco e labbra messe leggermente in risalto dal rossetto.
La tensione scompare non appena mi presento
e le stringo la mano. Mi fa strada, non per molto, fino al suo studio, una
piccola stanza ma illuminata da una larga finestra. Mi colpisce la grande
scrivania, proprio al di sotto della finestra, subito dopo mi accorgo degli
innumerevoli foglietti quadrati in ordine uno dietro l’altro, a guisa di
domino, che ne occupano una buona metà; sicuramente appunti per una nuova
opera, ho riconosciuto la sua calligrafia e l’inchiostro ormai familiare della
Parker. Una delle pareti è occupata da una libreria piena zeppa di libri e
punteggiata di fotografie in bianco e nero che ritraggono soprattutto donne,
donne algerine direi.
Una sedia è già preparata per me accanto a
quel tavolo dove hanno preso vita le novelle di Sept Filles[1].
Lei si siede di fronte a me.
Il primo soggetto che affrontiamo è la
traduzione. Con molta disponibilità M.me Sebbar risponde alle mie domande e
chiarisce i miei dubbi, a volte corregge ciò che avevo mal interpretato. E così
scopro che sans toit ni loi (p. 37), espressione ripresa dal titolo di
un film di Agnès Varda, non è lessicalizzata nella lingua francese, ma è un uso
proprio della scrittrice; che per langues de femmes (p. 38) non
s’intende solo il suono della voce femminile, ma quasi una lingua a sé, che
riproduce la cultura e l’universo femminile; che puces des pauvres (p.
60) e des yeux lisses (p. 96) sono “expressions à elle”; che soldat
de la montagne (p. 53) è utilizzato come sinonimo di “maquisard”; che trabendistes
(p. 75) è un termine che deriva dallo spagnolo – “contrabandistas” – , designa
i contrabbandieri in Algeria e quindi non appartiene al francese di Francia;
che l’espressione les plastiques des sous-sols qui puent en grande surface
(p. 93) si riferisce ai sacchetti in cui si vende il pesce nei reparti di
alimentari, spesso al piano seminterrato dei centri commerciali.
[...]
Dipanata la matassa dei dubbi traduttivi,
passiamo a qualche domanda sulla vita privata. Il primo argomento che ho
preparato riguarda la sua condizione di croisée: si definisce un ibrido
fra due culture, quella occidentale e quella orientale. Nelle Lettres[2] afferma che scrivere l’aiuta ad attenuare il sentimento dell’esilio, a
dissimulare la ferita fra le due rive. Malgrado questi termini dalla
connotazione decisamente negativa, dichiara di sentirsi serena.
Mi pare un’incoerenza, un dualismo, quello
fra i due poli della Francia e dell’Algeria, che sembra accompagnare la sua
vita e le sue opere, se consideriamo anche un paio di affermazioni
contrastanti:
« J’ai
oublié l’Algérie, elle ne compte pas. Ce qui m’intéresse, c’est de découvrir
une liberté sentimentale et intellectuelle que je n’ai pas connue
là-bas. » [3]
« L’Algérie
est dans ce que j’écris, pas de livre, pas de texte sans elle, l’Algérie depuis
que j’écris. » [4]
M.me Sebbar chiarisce subito che le due
affermazioni riguardano due periodi differenti della sua vita. La prima
riassume il suo arrivo in Francia, a diciannove anni, per studiare. L’Algeria
non le interessava, l’aveva lasciata alle spalle per intraprendere una carriera
universitaria in un paese ancora da scoprire, una carriera che appare chiara
già nei suoi primi scritti, des commentaires, des essais pour l’université:
ancora non immaginava che di lì a poco sarebbe diventata una scrittrice a tutti
gli effetti.
Solo con i primi romanzi, come la trilogia
di Shérazade[5],
dice di aver riscoperto l’Algeria. Da allora non l’ha più lasciata.
Non c’è alcun dualismo, quindi, non più
almeno. Nessuna contraddizione, riprendendo il discorso della difficile
condizione di croisée, poiché riesce a sentirsi serena nella scrittura,
senza la quale non può concepire la sua vita.
Le chiedo allora qual è il suo rapporto con
il paese natale, che nelle opere indica sempre con un là-bas, o con l’autre
coté de la mer.
In effetti, ribadisce la scrittrice,
rappresenta sempre l’Algeria come qualcosa di lontano, che il Mediterraneo
separa dalla Francia. In modo provocatorio le contesto che si può navigare e
attraversare il mare per giungere sull’altra riva, ma a lei piace pensare
all’acqua come a un elemento ostacolante, con la proprietà di dividere e non di
unire i due paesi. E aggiunge di essere fascinée par l’étranger, ovvero
l’Algeria, così come sua madre è stata affascinata dallo straniero (il padre
della scrittrice) e viceversa, così come la russa Isabelle Eberhardt è stata
affascinata dall’Algeria e a sua volta affascina Leïla Sebbar.
[...]
A questo punto le chiedo come mai, a suo
parere, il padre non le ha mai insegnato l’arabo e perché lei non ha mai voluto
impararlo. Con garbo mi rimanda alla lettura di Je ne parle pas la langue de
mon père[6],
dal momento che, come poi confesserà, è piuttosto schiva quando si parla della
sua vita. L’ho letto, incuriosita. Non sarebbe corretto riassumere il tutto in
una semplice frase, soprattutto se si considerano le componenti sociali e
storiche algerine che influenzano la vita della scrittrice e dei suoi cari. Si
evince, tuttavia, un sorta di protezione del padre nei confronti della
famiglia:
[…] que ses enfants ne connaissent pas
l’inquiétude, qu’ils ne se tourmentent pas d’une prochaine guerre de terre, de
sang, de langue. Son silence les protège. (p. 22).
Lei invece, affamata di risposte e di
chiarimenti, lo assilla con i suoi quesiti; solo alla morte del padre decide di
rispettare la sua volontà e di restare fedele al mistero dell’étranger
bien-aimé, dunque non imparerà mai l’arabo:
Je n’apprendrai pas la langue de mon père.
Je veux l’entendre, au hasard de mes pérégrinations.
Entendre la voix de l’étranger bien-aimé, la voix de la terre et du corps de
mon père que j’écris dans la langue de me mère. (p. 125)
E durante l’incontro con alcuni liceali, in
occasione della pubblicazione del libro[7], la
stessa scrittrice afferma a tal proposito:
Bien sûr, quand on ne sait pas une langue, on
l’apprend. Tout s’apprend… En tant que
fille d’instituteur, je ne peux pas dire le contraire ! Mais je sais aussi
que tout ne s’apprend pas. Dans une certaine situation affective, politique,
sentimentale, émotionelle, on ne peut pas.
Pertanto, l’Algeria resta una terra a lei
sconosciuta a causa dell’insormontabile barriera linguistica.
Ne deduco, allora, che si sentirà francese
più che algerina, ma non mi risponde in maniera diretta, ribadisce che la
Francia è il paese in cui ha scelto di vivere, il paese di sua madre, dei suoi
amori, dei suoi figli, burocraticamente lei è cittadina francese, tuttavia
l’Algeria è il paese di suo padre, il paese in cui è nata e ha passato i suoi
primi diciotto anni…
Vista la sua reticenza nel parlare di sé,
decido di cambiare soggetto alla conversazione, addentrandomi nell’opera che ho
esaminato e tradotto.
Innanzitutto le chiedo il motivo di questa
attenzione verso le donne, spesso protagoniste dei suoi romanzi. Ragazze, mi fa
notare, ed è appunto l’età che le interessa, l’adolescenza, un periodo fitto di
cambiamenti, con tutto ciò che comportano, senza contare che spesso tali
ragazze fanno parte di generazioni di immigrati, dunque altri fattori giungono
a complicare maggiormente la loro giovane vita.
Ricordando la dedica a Sohane, vittima
delle imposizioni maschili e sociali, osservo che le ragazze delle novelle
tentano di trovare la libertà di cui sentono il bisogno e qualche volta ci
riescono. Corregge anche questa mia considerazione, dal momento che ogni
protagonista sceglie il proprio destino. Sono un po’ titubante e le chiedo
spiegazioni: si riferisce anche a La fille dans l’arbre, violentata da
un gruppo di soldati, o a La fille des collines, rapita dai combattenti?
M.me Sebbar asserisce. Nei casi citati sopraggiungono fattori esterni che le
due ragazze non possono controllare, come la guerra. Tuttavia le storie possono
avere un lieto fine: per esempio la scrittrice ama pensare che La fille des
collines riuscirà a fuggire e a coronare il suo sogno di campionessa di
atletica leggera.
Continua affermando che è libera anche La
fille au hijeb, che ha scelto d’indossare l’hidjab in Francia, dunque va
controcorrente: è più libera di tutte le ragazze che si vestono alla moda
perché, in realtà, non scelgono autonomamente, seguono i must della
società moderna, conformandosi alla massa.
In seguito a tali chiarimenti, affronto il
tema della fotografia. Da ciò che avevo letto sulle sue opere, credevo che
avesse pubblicato degli album fotografici, ma mi spiega che le foto degli album
sono accompagnate dai suoi testi, poiché spesso scrive una storia partendo da
un’immagine. La fotografia diventa, dunque, un’importante fonte d’ispirazione
per la scrittrice.
Tuttavia aggiunge che la fotografia
costituisce per lei una mise à distance dell’Algeria. Mi torna in mente
allora l’immagine del mare che separa le due rive e insisto nel puntualizzare
che una foto può essere vista da un’altra prospettiva, quella del ricordo, e
avere la funzione di legare il presente con il passato, di riavvicinare la vita
presente in Francia a quella passata in Algeria. L’osservazione però non
suscita particolari commenti e M.me Sebbar conferma che la fotografia è
certamente un ricordo, ma un ricordo qui reste là.
Mi rimane ancora un argomento da
affrontare: il simbolismo nelle sue opere. Le chiedo innanzitutto perché ha
scelto di raccontare sette storie e mi risponde che il sette è il suo numero
fortunato, una cifra magica, ma è anche un numero importante sia per i
cristiani sia per i musulmani, poiché rappresenta la perfezione, nonché un
rinnovamento positivo. E la speranza di non dover assistere mai più alla morte
di un’altra Sohane, aggiungo.
Un altro elemento simbolico che emerge in
molte opere e in tutte le novelle di Sept Filles è il colore verde. A
tal proposito, sostiene che il verde è il colore dei tessuti orientali e
dell’Islam, il colore del Profeta, quindi simbolo di conoscenza ed emblema
della salvezza per i musulmani. È anche il colore della bandiera algerina,
simbolo della liberazione dal giogo della colonizzazione francese; mi ricorda
infatti che il giorno in cui si proclamò l’indipendenza, il 3 luglio 1962, le
madri vestirono di verde le loro figlie per scendere in piazza.
Infine sposto il mio interesse sullo stile.
Il narratore delle novelle racconta ogni storia seguendo il flusso dei suoi
pensieri, a volte non termina alcuni discorsi, altre volte li riprende dopo
alcune digressioni più o meno ampie, intreccia il passato e il presente utilizzando
in modo disordinato i tempi verbali. Mi sembrano tutti elementi usati allo
scopo di disorientare il lettore. La scrittrice lo conferma e mi fa notare
altri fattori con lo stesso fine. Per esempio, ne La fille et la
photographie, utilizza il medesimo pronome personale per indicare persone
differenti; a volte, invece, è la trama a destabilizzare il pubblico, come
quella de La fille de la maison close, perché si racconta l’amore della Maîtresse
per Mériéma; altre volte si raggiunge lo stesso effetto con i silenzi dei
personaggi, come ne La fille aux Pataugas, in cui solo a conclusione
della storia si comprende davvero cosa stia succedendo.
Sempre a proposito dello stile, mi chiedo
se nei suoi ritratti individuali preferisca il tono sfumato, quasi neutro, alla
denuncia diretta, ma le preme chiarire che il suo non è un tono neutro e che la
decisione di trattare un argomento, anche sotto forma di novella, muove sempre
da una ragione ben precisa e questo sottintende di per sé un certo engagement.
Fra una domanda e l’altra passano quasi due
ore, durante le quali scopro che M.me Sebbar riporta nello scritto le
peculiarità della lingua parlata, quali i brevi sintagmi intercalati da
numerose cesure prosodiche. Mi pare quasi di leggere uno dei suoi libri.
Esauriti i miei quesiti, ora è lei a poter
soddisfare la sua curiosità: fa qualche domanda su di me, sui miei soggiorni in
Francia, sugli studi universitari, sugli sbocchi professionali e su quello che
voglio fare dopo la laurea. Mi chiede di tenerla aggiornata con la stesura
della tesi, cosa che ho fatto diligentemente, e se ho intenzione di pubblicare
la traduzione, visto che le edizioni Mondadori se ne sono già occupate in
passato. A tal proposito, mi chiede se voglio dare un’occhiata alle opere in
italiano e mi offre una copia auto biografata di Soldats e della traduzione di Paolina Baruchello, edita appunto
nella collana “Shorts” della Mondadori, perché potrebbe essere utile
confrontare l’originale con il lavoro di una traduttrice professionista.
E così giunge il momento di salutarla, dopo
averla ringraziata infinitamente per il tempo che mi ha dedicato. Ritorniamo
nello stretto corridoio, dove, solo adesso, mi accorgo di una gigantesca
cartina geografica dell’Algeria proprio accanto alla porta d’ingresso, sulla
quale riesco a individuare Aflou, la città che le ha dato i natali, nella zona
degli altipiani.
Esco, lei spera che la nostra chiacchierata
mi sia stata utile e mi sorride. Una stretta di mano e richiude la porta. Non
mi sembra vero, eppure ho appena avuto un colloquio con una persona squisita,
una scrittrice che ho avuto la fortuna di scoprire grazie al presente lavoro.
Mi sono subito appassionata al suo modo di scrivere e continuerò a leggere i
suoi romanzi. Aspettando le sue più recenti pubblicazioni, ho solo l’imbarazzo
della scelta fra novelle, romanzi, saggi, opere autobiografiche e teatrali…
[1] Sebbar L., Sept Filles, Paris,
Thierry Magnier, 2003.
[2] Sebbar L., Houston N., Lettres
Parisiennes. Autopsie de l’exil, Paris, Bernard Barrault, 1986.
[3] Incontro letterario alla mediateca di Mantes, tratto dal sito internet
www.courrierdemantes.com.
[4] Appunti a margine di Mes Algéries en
France. Carnet de voyages, Paris, Bleu Autour, 2004.
[5] Shérazade, 17 ans, brune, frisée, les yeux verts, Paris, Stock, 1982. Les carnets de Shérazade,
Paris, Stock, 1985. Le fou de Shérazade, Paris, Stock, 1991.
[6] Sebbar L., Je ne parle pas la langue
de mon père, Paris, Julliard, 2003.
[7] Rencontre avec Leïla Sebbar.
« Écrire, créer, transmettre Leïla Sebbar. Le Phénix, Valenciennes, 28 mai
2003 », tratto dal sito http://crdp.ac-lille.fr.