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lunedì 13 maggio 2013

Da oggi più rimorsi e meno rimpianti

Dove osano le idee.
È lo slogan che si legge sulla pagina web del Salone del Libro a Torino.

Osare... suona promettente.
Quanta speranza racchiusa in poche lettere. Speranza di riuscire a dare il gran salto, prima o poi!

Osare. È rischioso, lo so bene, ma chi non risica non rosica. Come mi è successo già in passato.
Proprio quando la mia passione iniziava a fiorire, ad essere palese, a volersi imporre agli altri.
Un'autrice, Leïla Sebbar; una raccolta di novelle, Sept filles.
La mia prima rudimentale esperienza di scouting per la tesi di laurea, la mia prima traduzione editoriale.
Quanto ho adorato - e continuo ad amare - lo stile di quella scrittrice dal cuore diviso tra Algeria e Francia, autrice prolifica, ma poco conosciuta in Italia. Conservo con cura, in una cartellina di quelle che usavamo alle medie per educazione tecnica, i miei cimeli: la nostra corrispondenza (sì, perché lei scrive ancora tutto a mano, una bella calligrafia, resa ancor più affascinante dalla sua Parker), una foto autografata, un suo racconto tradotto in italiano, e anche quello porta il suo nome sulla scia di un inchiostro nero.
L'incontro con lei è stata un'esperienza indimenticabile, come lo sarebbe stringere la mano a Caetano Veloso per un appassionato della musica brasiliana. Tecnicamente mi è servito a sciogliere alcuni nodi traduttivi, ma quanto mi ha arricchito a livello culturale e umano!
Una volta finita la tesi, tradotti i suoi racconti, il mio relatore mi ha chiesto se poteva tenersi l'opera originale. Sì, gliel'ho offerta. E poi gli ho chiesto, un po' ingenua chissà, se ci fosse qualche speranza di pubblicazione; lui mi ha risposto in maniera gentile ma senza possibilità di replica che si trattava di un'utopia e nulla più.
E invece... dopo qualche anno, in un vortice di ricerche in rete, mi imbatto in una versione italiana di Sept filles, tradotta da una laureanda di una facoltà in cui, guarda caso, insegna il mio relatore e, udite udite: pubblicata da una piccola casa editrice.

Morale della favola: osare!

Eh già, non accontentiamoci della prima porta chiusa, se crediamo davvero nelle nostre capacità e nel valore culturale di un'opera letteraria, di un autore straniero, la tenacia ci premierà, ne sono convinta.

Spesso ho avuto la tentazione di comprare il libro tradotto, per curiosità, per scoprire quanto fosse buona (e autentica...) quella traduzione. Forse un giorno lo farò sul serio, ma ora è tempo di volgere lo sguardo al futuro e non al passato e ai rimpianti.

Vi lascio però una chicca, una postfazione alla mia tesi sul libro della Sebbar, che il famoso relatore mi aveva anche proposto/promesso di pubblicare in una sua rivista letteraria, proposta/promessa che, pensa la sottoscritta, non si sia mai concretizzata.
Chissà che non vi incuriosisca leggere qualche opera della mia scrittrice.


INCONTRO CON LA SCRITTRICE LEÏLA SEBBAR


Parigi, 10 agosto 2005




Sono le cinque del pomeriggio, comincio a essere un po’ tesa. Tra un’ora esatta incontrerò una scrittrice, la scrittrice del libro che ho tradotto per la tesi, di un libro che ho scelto personalmente dopo un’accurata ricerca. Ho già studiato la piantina di quella immensa ragnatela che è la metropolitana di Parigi, ma in fondo sono bastati pochi giorni per abituarmi e ora so che devo prendere due linee, cambiare a Gare Montparnasse e scendere a Glacière. E ora capisco come mai la vicina portoghese di Yasmine ne La fille au hijeb abbia il tempo di ricamare i suoi centrini nei mezzi di trasporto parigini!

Mi muovo in anticipo per contrastare il mio proverbiale ritardo ed eventuali intoppi, per esempio la smagnetizzazione della Carte Orange, comprata per evitare la noiosa, ripetitiva prassi del biglietto e che fino a quel mattino non mi aveva dato problemi…

Insomma mancano cinque minuti alle sei e per fortuna mi trovo a digitare il codice numerico del portone, sotto l’immobile in cui abita M.me Sebbar. Ecco l’ascensore, terzo piano, sulla destra, suono il campanello un po’ emozionata e aspetto una manciata di secondi, pochi forse, ma interminabili.



Ed eccola che fa capolino dalla porta, vestita semplicemente con una lunga giacca rossa, collo all’orientale e abbottonatura laterale, con un paio di pantaloni neri e scarpe basse. Un filo di trucco e labbra messe leggermente in risalto dal rossetto.

La tensione scompare non appena mi presento e le stringo la mano. Mi fa strada, non per molto, fino al suo studio, una piccola stanza ma illuminata da una larga finestra. Mi colpisce la grande scrivania, proprio al di sotto della finestra, subito dopo mi accorgo degli innumerevoli foglietti quadrati in ordine uno dietro l’altro, a guisa di domino, che ne occupano una buona metà; sicuramente appunti per una nuova opera, ho riconosciuto la sua calligrafia e l’inchiostro ormai familiare della Parker. Una delle pareti è occupata da una libreria piena zeppa di libri e punteggiata di fotografie in bianco e nero che ritraggono soprattutto donne, donne algerine direi.

Una sedia è già preparata per me accanto a quel tavolo dove hanno preso vita le novelle di Sept Filles[1]. Lei si siede di fronte a me.



Il primo soggetto che affrontiamo è la traduzione. Con molta disponibilità M.me Sebbar risponde alle mie domande e chiarisce i miei dubbi, a volte corregge ciò che avevo mal interpretato. E così scopro che sans toit ni loi (p. 37), espressione ripresa dal titolo di un film di Agnès Varda, non è lessicalizzata nella lingua francese, ma è un uso proprio della scrittrice; che per langues de femmes (p. 38) non s’intende solo il suono della voce femminile, ma quasi una lingua a sé, che riproduce la cultura e l’universo femminile; che puces des pauvres (p. 60) e des yeux lisses (p. 96) sono “expressions à elle”; che soldat de la montagne (p. 53) è utilizzato come sinonimo di “maquisard”; che trabendistes (p. 75) è un termine che deriva dallo spagnolo – “contrabandistas” – , designa i contrabbandieri in Algeria e quindi non appartiene al francese di Francia; che l’espressione les plastiques des sous-sols qui puent en grande surface (p. 93) si riferisce ai sacchetti in cui si vende il pesce nei reparti di alimentari, spesso al piano seminterrato dei centri commerciali.

[...]

Dipanata la matassa dei dubbi traduttivi, passiamo a qualche domanda sulla vita privata. Il primo argomento che ho preparato riguarda la sua condizione di croisée: si definisce un ibrido fra due culture, quella occidentale e quella orientale. Nelle Lettres[2] afferma che scrivere l’aiuta ad attenuare il sentimento dell’esilio, a dissimulare la ferita fra le due rive. Malgrado questi termini dalla connotazione decisamente negativa, dichiara di sentirsi serena.

Mi pare un’incoerenza, un dualismo, quello fra i due poli della Francia e dell’Algeria, che sembra accompagnare la sua vita e le sue opere, se consideriamo anche un paio di affermazioni contrastanti:



« J’ai oublié l’Algérie, elle ne compte pas. Ce qui m’intéresse, c’est de découvrir une liberté sentimentale et intellectuelle que je n’ai pas connue là-bas. » [3]

« L’Algérie est dans ce que j’écris, pas de livre, pas de texte sans elle, l’Algérie depuis que j’écris. » [4]



M.me Sebbar chiarisce subito che le due affermazioni riguardano due periodi differenti della sua vita. La prima riassume il suo arrivo in Francia, a diciannove anni, per studiare. L’Algeria non le interessava, l’aveva lasciata alle spalle per intraprendere una carriera universitaria in un paese ancora da scoprire, una carriera che appare chiara già nei suoi primi scritti, des commentaires, des essais pour l’université: ancora non immaginava che di lì a poco sarebbe diventata una scrittrice a tutti gli effetti.

Solo con i primi romanzi, come la trilogia di Shérazade[5], dice di aver riscoperto l’Algeria. Da allora non l’ha più lasciata.

Non c’è alcun dualismo, quindi, non più almeno. Nessuna contraddizione, riprendendo il discorso della difficile condizione di croisée, poiché riesce a sentirsi serena nella scrittura, senza la quale non può concepire la sua vita.

Le chiedo allora qual è il suo rapporto con il paese natale, che nelle opere indica sempre con un là-bas, o con l’autre coté de la mer.

In effetti, ribadisce la scrittrice, rappresenta sempre l’Algeria come qualcosa di lontano, che il Mediterraneo separa dalla Francia. In modo provocatorio le contesto che si può navigare e attraversare il mare per giungere sull’altra riva, ma a lei piace pensare all’acqua come a un elemento ostacolante, con la proprietà di dividere e non di unire i due paesi. E aggiunge di essere fascinée par l’étranger, ovvero l’Algeria, così come sua madre è stata affascinata dallo straniero (il padre della scrittrice) e viceversa, così come la russa Isabelle Eberhardt è stata affascinata dall’Algeria e a sua volta affascina Leïla Sebbar.

[...]

A questo punto le chiedo come mai, a suo parere, il padre non le ha mai insegnato l’arabo e perché lei non ha mai voluto impararlo. Con garbo mi rimanda alla lettura di Je ne parle pas la langue de mon père[6], dal momento che, come poi confesserà, è piuttosto schiva quando si parla della sua vita. L’ho letto, incuriosita. Non sarebbe corretto riassumere il tutto in una semplice frase, soprattutto se si considerano le componenti sociali e storiche algerine che influenzano la vita della scrittrice e dei suoi cari. Si evince, tuttavia, un sorta di protezione del padre nei confronti della famiglia:



[…] que ses enfants ne connaissent pas l’inquiétude, qu’ils ne se tourmentent pas d’une prochaine guerre de terre, de sang, de langue. Son silence les protège. (p. 22).



Lei invece, affamata di risposte e di chiarimenti, lo assilla con i suoi quesiti; solo alla morte del padre decide di rispettare la sua volontà e di restare fedele al mistero dell’étranger bien-aimé, dunque non imparerà mai l’arabo:



Je n’apprendrai pas la langue de mon père.



Je veux l’entendre, au hasard de mes pérégrinations. Entendre la voix de l’étranger bien-aimé, la voix de la terre et du corps de mon père que j’écris dans la langue de me mère. (p. 125)



E durante l’incontro con alcuni liceali, in occasione della pubblicazione del libro[7], la stessa scrittrice afferma a tal proposito:



Bien sûr, quand on ne sait pas une langue, on l’apprend. Tout s’apprend…  En tant que fille d’instituteur, je ne peux pas dire le contraire ! Mais je sais aussi que tout ne s’apprend pas. Dans une certaine situation affective, politique, sentimentale, émotionelle, on ne peut pas.



Pertanto, l’Algeria resta una terra a lei sconosciuta a causa dell’insormontabile barriera linguistica.

Ne deduco, allora, che si sentirà francese più che algerina, ma non mi risponde in maniera diretta, ribadisce che la Francia è il paese in cui ha scelto di vivere, il paese di sua madre, dei suoi amori, dei suoi figli, burocraticamente lei è cittadina francese, tuttavia l’Algeria è il paese di suo padre, il paese in cui è nata e ha passato i suoi primi diciotto anni…



Vista la sua reticenza nel parlare di sé, decido di cambiare soggetto alla conversazione, addentrandomi nell’opera che ho esaminato e tradotto.

Innanzitutto le chiedo il motivo di questa attenzione verso le donne, spesso protagoniste dei suoi romanzi. Ragazze, mi fa notare, ed è appunto l’età che le interessa, l’adolescenza, un periodo fitto di cambiamenti, con tutto ciò che comportano, senza contare che spesso tali ragazze fanno parte di generazioni di immigrati, dunque altri fattori giungono a complicare maggiormente la loro giovane vita.

Ricordando la dedica a Sohane, vittima delle imposizioni maschili e sociali, osservo che le ragazze delle novelle tentano di trovare la libertà di cui sentono il bisogno e qualche volta ci riescono. Corregge anche questa mia considerazione, dal momento che ogni protagonista sceglie il proprio destino. Sono un po’ titubante e le chiedo spiegazioni: si riferisce anche a La fille dans l’arbre, violentata da un gruppo di soldati, o a La fille des collines, rapita dai combattenti? M.me Sebbar asserisce. Nei casi citati sopraggiungono fattori esterni che le due ragazze non possono controllare, come la guerra. Tuttavia le storie possono avere un lieto fine: per esempio la scrittrice ama pensare che La fille des collines riuscirà a fuggire e a coronare il suo sogno di campionessa di atletica leggera.

Continua affermando che è libera anche La fille au hijeb, che ha scelto d’indossare l’hidjab in Francia, dunque va controcorrente: è più libera di tutte le ragazze che si vestono alla moda perché, in realtà, non scelgono autonomamente, seguono i must della società moderna, conformandosi alla massa.

In seguito a tali chiarimenti, affronto il tema della fotografia. Da ciò che avevo letto sulle sue opere, credevo che avesse pubblicato degli album fotografici, ma mi spiega che le foto degli album sono accompagnate dai suoi testi, poiché spesso scrive una storia partendo da un’immagine. La fotografia diventa, dunque, un’importante fonte d’ispirazione per la scrittrice.

Tuttavia aggiunge che la fotografia costituisce per lei una mise à distance dell’Algeria. Mi torna in mente allora l’immagine del mare che separa le due rive e insisto nel puntualizzare che una foto può essere vista da un’altra prospettiva, quella del ricordo, e avere la funzione di legare il presente con il passato, di riavvicinare la vita presente in Francia a quella passata in Algeria. L’osservazione però non suscita particolari commenti e M.me Sebbar conferma che la fotografia è certamente un ricordo, ma un ricordo qui reste là.

Mi rimane ancora un argomento da affrontare: il simbolismo nelle sue opere. Le chiedo innanzitutto perché ha scelto di raccontare sette storie e mi risponde che il sette è il suo numero fortunato, una cifra magica, ma è anche un numero importante sia per i cristiani sia per i musulmani, poiché rappresenta la perfezione, nonché un rinnovamento positivo. E la speranza di non dover assistere mai più alla morte di un’altra Sohane, aggiungo.

Un altro elemento simbolico che emerge in molte opere e in tutte le novelle di Sept Filles è il colore verde. A tal proposito, sostiene che il verde è il colore dei tessuti orientali e dell’Islam, il colore del Profeta, quindi simbolo di conoscenza ed emblema della salvezza per i musulmani. È anche il colore della bandiera algerina, simbolo della liberazione dal giogo della colonizzazione francese; mi ricorda infatti che il giorno in cui si proclamò l’indipendenza, il 3 luglio 1962, le madri vestirono di verde le loro figlie per scendere in piazza.

Infine sposto il mio interesse sullo stile. Il narratore delle novelle racconta ogni storia seguendo il flusso dei suoi pensieri, a volte non termina alcuni discorsi, altre volte li riprende dopo alcune digressioni più o meno ampie, intreccia il passato e il presente utilizzando in modo disordinato i tempi verbali. Mi sembrano tutti elementi usati allo scopo di disorientare il lettore. La scrittrice lo conferma e mi fa notare altri fattori con lo stesso fine. Per esempio, ne La fille et la photographie, utilizza il medesimo pronome personale per indicare persone differenti; a volte, invece, è la trama a destabilizzare il pubblico, come quella de La fille de la maison close, perché si racconta l’amore della Maîtresse per Mériéma; altre volte si raggiunge lo stesso effetto con i silenzi dei personaggi, come ne La fille aux Pataugas, in cui solo a conclusione della storia si comprende davvero cosa stia succedendo.

Sempre a proposito dello stile, mi chiedo se nei suoi ritratti individuali preferisca il tono sfumato, quasi neutro, alla denuncia diretta, ma le preme chiarire che il suo non è un tono neutro e che la decisione di trattare un argomento, anche sotto forma di novella, muove sempre da una ragione ben precisa e questo sottintende di per sé un certo engagement.



Fra una domanda e l’altra passano quasi due ore, durante le quali scopro che M.me Sebbar riporta nello scritto le peculiarità della lingua parlata, quali i brevi sintagmi intercalati da numerose cesure prosodiche. Mi pare quasi di leggere uno dei suoi libri.



Esauriti i miei quesiti, ora è lei a poter soddisfare la sua curiosità: fa qualche domanda su di me, sui miei soggiorni in Francia, sugli studi universitari, sugli sbocchi professionali e su quello che voglio fare dopo la laurea. Mi chiede di tenerla aggiornata con la stesura della tesi, cosa che ho fatto diligentemente, e se ho intenzione di pubblicare la traduzione, visto che le edizioni Mondadori se ne sono già occupate in passato. A tal proposito, mi chiede se voglio dare un’occhiata alle opere in italiano e mi offre una copia auto biografata di Soldats e della traduzione di Paolina Baruchello, edita appunto nella collana “Shorts” della Mondadori, perché potrebbe essere utile confrontare l’originale con il lavoro di una traduttrice professionista.



E così giunge il momento di salutarla, dopo averla ringraziata infinitamente per il tempo che mi ha dedicato. Ritorniamo nello stretto corridoio, dove, solo adesso, mi accorgo di una gigantesca cartina geografica dell’Algeria proprio accanto alla porta d’ingresso, sulla quale riesco a individuare Aflou, la città che le ha dato i natali, nella zona degli altipiani.

Esco, lei spera che la nostra chiacchierata mi sia stata utile e mi sorride. Una stretta di mano e richiude la porta. Non mi sembra vero, eppure ho appena avuto un colloquio con una persona squisita, una scrittrice che ho avuto la fortuna di scoprire grazie al presente lavoro. Mi sono subito appassionata al suo modo di scrivere e continuerò a leggere i suoi romanzi. Aspettando le sue più recenti pubblicazioni, ho solo l’imbarazzo della scelta fra novelle, romanzi, saggi, opere autobiografiche e teatrali…





[1] Sebbar L., Sept Filles, Paris, Thierry Magnier, 2003.

[2] Sebbar L., Houston N., Lettres Parisiennes. Autopsie de l’exil, Paris, Bernard Barrault, 1986.

[3] Incontro letterario alla mediateca di Mantes, tratto dal sito internet www.courrierdemantes.com.

[4] Appunti a margine di Mes Algéries en France. Carnet de voyages, Paris, Bleu Autour, 2004.

[5] Shérazade, 17 ans, brune, frisée, les yeux verts, Paris, Stock, 1982. Les carnets de Shérazade, Paris, Stock, 1985. Le fou de Shérazade, Paris, Stock, 1991.

[6] Sebbar L., Je ne parle pas la langue de mon père, Paris, Julliard, 2003.


[7] Rencontre avec Leïla Sebbar. « Écrire, créer, transmettre Leïla Sebbar. Le Phénix, Valenciennes, 28 mai 2003 », tratto dal sito http://crdp.ac-lille.fr.

sabato 4 maggio 2013

Adotta anche tu!

Oggi ho adottato una parola.
Sì, c'è chi adotta un cane o un gatto, chi un bambino a distanza. 
Io invece una parola.
Con tanto di attestato ufficiale.

Una particolare e interessante iniziativa che trovate qui: http://adottaunaparola.ladante.it/

Finora sono state adottate più di trentamila parole italiane, molte delle quali in disuso, in pericolo d'estinzione perché non le usiamo abbastanza. Eppure ce ne sono, di chicche!
Io ho scelto di adottare l'aggettivo nettareo, mi piace l'idea zuccherina che evocano queste sillabe.
Mi piace il loro tono poetico, un po' vecchio e impolverato. Sarà che sono un'inguaribile romantica?
Bando alle ciance, mi sono impegnata a usare questa parola, la mia protetta, per un anno intero. Certo, non a sproposito... Non posso nettareo infilare questo nettareo aggettivo dappertutto, in ogni nettareo angolo, in ogni nettarea discussione e, che ne so, augurare un nettareogiorno a tutti. No. Anche perché col diabete in agguato nella società in cui ci troviamo, non mi perdonerei mai un atteggiamento così scellerato. La salute prima di tutto, dicevano i saggi. E pure quella mentale, che non guasta, aggiungo io. Quella che a volte sembra mancarmi, direte voi. 
Tranquilli, ho tutto sotto controllo. Basta solo che la mia mano vada a tentoni poco più in là per cercare la nettarea bevanda esaltata da Parini. Ecco, con una tazza di caffè tutto torna alla normalità.

sabato 27 aprile 2013

Scrittura creativa

Ho appena ritrovato un testo di qualche anno fa, un esercizio di scrittura creativa.
Si trattava di scrivere in venti minuti un breve testo, non ricordo più a che scopo, ma assolutamente spontaneo, che riguardasse un passatempo, un hobby, uno sport... insomma qualcosa che mi piacesse tanto. E poi un breve testo in cui lo stesso argomento fosse presentato in maniera negativa.
Eccolo qua:



 Adoro cucinare con mio marito

Mi piace tanto perché ci permette di passare tempo insieme. Finalmente, di solito di sera, a volte di pomeriggio, dopo una giornata pesante, una giornata stressante, o magari solo una giornata intensa, durante la quale ognuno ha avuto da fare, tra lavoro, spesa o altro. Una giornata in cui ognuno ha pensato a sé e alle lezioni da dare, agli esami da preparare o da correggere, ai ragazzini da sopportare!

Insomma, dopo una giornata così, ci ritroviamo nello stesso autobus o direttamente a casa. E se si prospetta una serata libera da impegni di ogni sorta, quali sport o cene fuori, ci mettiamo ai fornelli, pronti per creare qualcosa di unico.

In effetti per me cucinare insieme a mio marito è come giocare a fare magie. Di bacchette magiche ce ne sono tante e il loro uso dipende dalla pozione che decidiamo di preparare. Il coltello per tagliuzzare le verdurine, il cucchiaio di legno per mescolare la salsa, il forchettone per controllare la cottura del pollo, per nominarne solo alcune.

Ma la bacchetta per eccellenza, quella che non deve mai mancare, è il cucchiaio o la forchetta o l’utensile di turno che utilizziamo per assaggiare la nostra creazione e per decidere cosa manca, o se bisogna aggiungere ancora un po’ di sale o qualche spezia particolare, o uno dei tanti tipi di peperoncino che abbiamo in dispensa. Perché da quando vivo qui in Messico ho imparato che il peperoncino non è solo piccante, ma ha un sapore a seconda del tipo di pianta. E un certo sapore si combina meglio con un certo tipo di pietanza. Così come succede con i vini. Il bianco con il pesce, il rosso con la carne.

E ogni volta nasce un’opera d’arte, non me ne vogliate per la presunzione! A volte il risultato è degno di grandi chef, altre volte decisamente no, ma per noi ha un grande valore.  Quando ci apprestiamo ad assaggiare quello che le nostre manine hanno creato, fingiamo sempre di essere grandi critici del Gambero Rosso o il critico di Ratatouille e diamo un voto da uno a dieci al piatto fumante. Questo è il voto oggettivo, tuttavia ce n’è ancora un altro, che resta nascosto in fondo al mio cuore, ed è sempre un dieci se vogliamo quantificarlo sulla stessa scala, un dieci per la passione che ci unisce, per l’amore con cui è nato quel piatto. Un po’ come nelle mitiche pubblicità delle salse pronte Barilla!

A parte gli scherzi, si tratta di una creazione unica, che non si può rifare se non siamo insieme, perché in quel piatto c’è un pizzico della mia e della sua personalità.  Cucinare gli stessi ingredienti quando sono da sola corrisponde soltanto a una misera imitazione della magia iniziale e allora preferisco inventare qualcos’altro. Per preservare appunto il ricordo di quel momento a due, tanto prezioso e agognato di questi tempi.



Detesto cucinare con mio marito

Perché dopo una giornata stressante devo pure lambiccarmi il cervello per inventarmi cosa cucinare, per carità, devo sforzarmi un po’ meno visto che siamo in due, ma è pur sempre uno sforzo che non vorrei fare al mio rientro. Dopo tutti i problemi della giornata, non solo lavorativi, devo anche muovermi nella nostra cucina, che è un quadratino indubbiamente minuscolo. E che non ha tanti spazi per appoggiare tutto quello che ci serve: se io vado accanto al lavello  per tagliare le zucchine che ho appena lavato, mio marito deve assolutamente aprire il rubinetto per sciacquare il peperoncino e guarda caso ha bisogno del mio coltello preferito che sto utilizzando io… se lui è ai fornelli per mescolare la salsa, io devo aggiungere proprio in quel momento una spezia e lo interrompo togliendogli l’ispirazione…

E immaginatevi girare per quella piccolissima area con i coltelli affilati! Secondo mio marito io non sono tanto attenta e mi rimprovera per il modo in cui glieli passo. Ma questo no eh! Io cerco di fare attenzione, di non farti male… e tu mi rimproveri pure!!! Almeno cerca di capire lo sforzo, no??? Non parliamo poi di quando sono già furibonda con lui per altri motivi, magari è un sentimento latente, apparentemente addormentato, che può rendersi manifesto da un momento all’altro… e cucinare insieme è davvero pericoloso per il nostro equilibrio di coppia! Se lui dice A, io gli rispondo B, se pensa di aggiungere sale, io lo fermo perché secondo me va bene così, se pensa di metterci più acqua perché è troppo asciutto, io metto il broncio perché gli faccio credere che così non otterremo il risultato a cui miravo.

Poi, se rientrando non ho avuto il tempo di cambiarmi, di indossare qualcosa di più comodo per cucinare, capita sempre ma proprio sempre che mi macchi. Quella maledetta, antipatica goccia d’olio, o di sugo, o di qualsiasi altro intingolo è invariabilmente lì ad aspettarmi, a spiarmi, a spiare l’istante in cui potrà raggiungere me. Mica spia mio marito, no, lui è ancora più vicino, con la sua camicia bianca, immacolata, tanto invitante per quel sugo rosso rosso e invece no, quest’ultimo preferisce la mia maglietta colorata, che magari di rosso ce ne ha già tanto!!!

E ancora, detesto quando ci dividiamo i compiti e a me capita di tagliare le cipolle, o peggio ancora il peperoncino, con tutti i pensieri che mi girano per la testa devo pure cercare di ricordarmi di a lavare per bene le mani prima di toccarmi gli occhi o la bocca. Non so se vi è mai capitato di sentire quella sensazione, un bruciore che fa piangere e che dura un’eternità, e con le lenti a contatto poi, non ne parliamo!!!

Carino no?

venerdì 26 aprile 2013

Io e l'era digitale

E ricomincia qui la mia avventura tecnologica con la traduzione.

Io che adoro quel profumo di libro nuovo. 
Io che adoro la carta in tutte le sue sfacettature, per scrivere, per disegnare, per creare.

Io che con altri colleghi sto lavorando al mio primo ebook!
Se me l'avessero detto qualche anno fa sarebbe partita una bella risata e tutti avrebbero dimenticato l'accaduto.

E invece la passione per la traduzione e l'entusiasmo per le novità mi riportano ancora una volta alla rete.
Ci siamo, inutile sfuggirle, meglio farsela amica e stare a vedere cosa ci riserva il destino.

Così, dicevo, ricomincia la mia avventura traduttiva. Mai finita in realtà, preferisco pensarla in fase di ricostruzione, di lavori in corso, dopo anni dedicati a tradurre testi tecnici.
Perché so cosa voglio tradurre. E adesso so anche che lo farò, indipendentemente da quanto ci metterò a riuscirci.
Voglio tradurre libri.

(Dal fondo parte un'altra risata, anzi tantissime, ma non sembrano toccare l'attrice che recita il suo monologo.)

É sempre stato il mio sogno nel cassetto.
All'inizio l'avevo sotto chiave, e questa, in tasca. Ma la vita mi ha costretta a cambiare abbigliamento, così la chiave s'é perduta. Ogni tanto la ritrovavo, durante i cambi di stagione, ma nelle mie tasche dovevo metterci sempre troppe cose e non c'era spazio anche per la chiave. E dunque la poggiavo lì tra le scartoffie del lavoro, o sul mobile accanto ai ricordi preziosi, oppure in qualche altro cassetto dove prima o poi sarebbe stata ricoperta e dimenticata.

Fino all'inizio di questo 2013.
La vita gioca brutti scherzi, ma le macerie di un terremoto nascondono sempre un fiore. Basta avere la caparbietà di cercarlo. Ed é stato così che ne ho trovati più d'uno.

Tra questi la scrittura e la narrativa.